Jordan

il nostalgico

Poster del film Splendor, di Ettore Scola.

il nostalgico

Luigi

il sognatore

Quante volte, in quest’ultimo anno, abbiamo desiderato di andare al cinema? Ogni maledetta volta abbiamo visto scorrere come titoli di coda immagini di luci spente, locandine mai sostituite, bloccate nel tempo, e quei lunghi tappeti rossi senza più passi da guidare, l’odore del disincanto dove prima c’era quello dei popcorn, il vicino molesto da zittire… okay, lui magari no. Tuttavia una parte pesante del nostro bagaglio di emozioni ci è stata strappata e a noi non resta che vagheggiare un tempo perduto, nell’attesa di poterlo rivivere.

Noi di CINEMAPART abbiamo pensato che Ettore Scola avrebbe trovato in tutto ciò il motivo conduttore per un film, ma forse l’ha fatto davvero. Nel 1989.

Splendor racconta una storia in cui ognuno di noi può essere protagonista.

Splendor racconta una storia in cui ognuno di noi può essere protagonista. Jordan (Marcello Mastroianni) e Luigi (Massimo Troisi), rispettivamente proprietario e proiezionista di un piccolo cinema di paese, si vedono costretti a chiudere rinunciando al sogno di una vita, che hanno curato per decenni insieme a Chantal (Marina Vlady).

Prima però si ritrovano nella sala ormai deserta, che tanto avrebbe da raccontare, e proiettano una vecchia pellicola alla quale partecipano emozionati, scambiandosi battute amaramente comiche.

Il consiglio del regista è dunque quello di condividere la visione di un film, per combattere la malinconia e la preoccupazione con leggerezza e ironia. Che cosa serve più di questo, in un momento simile? Il commosso e commovente appello finale di lunga vita al cinema è ciò che dobbiamo emulare, ciò che Scola auspicava per le generazioni future.

Studio grafico per il film Splendor.Allora sedetevi con noi nella sala virtuale di CINEMAPART, guardiamo insieme questo film che ne contiene molti altri, fingiamo che sia Natale e sulle note di Auld Lang Syne celebriamo l’arte, i “bei tempi andati” e la rinascita che presto o tardi sarà bellissimo condividere.

Parte 1

Una canzone che scalda il cuore

Auld Lang Syne

a cura di

Arianna Caprioli

Parte 2

Anatomia di un sogno
Who

Regia, sceneggiatura e soggetto: Ettore Scola

Ruoli principali

— Marcello Mastroianni in Jordan, appassionato cinefilo sin da bambino, proprietario del cinema “Splendor”;

— Massimo Troisi in Luigi, proiezionista dello “Splendor”, fervido sognatore e discepolo di Jordan;

— Marina Vlady in Chantal, mascherina e cassiera dello “Splendor”.

Colonna sonora: Armando Trovajoli

Fotografia: Luciano Tovoli

What

Splendor è una commedia: la sua parabola è un sogno di straordinaria bellezza, nato dall’entusiasmo infantile di Jordan – cinefilo indotto –, culminato nell’acquisto del cinema “Splendor”, l’incarnazione vera della sua passione, e terminato nell’amarezza di dovervi rinunciare, chiudendo la sala a causa dei debiti crescenti. Ci fa credere nell’epilogo triste, ma ecco il deus ex machina: Luigi, che del cinema fa propri i colpi di scena, immagina un pubblico riconoscente che occupa la sala dello “Splendor” impedendo lo smantellamento.

Where

Cosa porta il Leone d’oro alla carriera Mastroianni e il Golden Globes Scola nella città di Arpino – 7000 anime – nel frusinate? In questo borgo caratteristico Scola trova l’ideale topografia della cittadina di provincia, relativamente piccola seppur importante, con il cinema di città vicino alla piazza principale, il luogo di ritrovo per antonomasia dove Jordan e Luigi assistono ai principali cambiamenti della vita cittadina.

When

Splendor inizia la sua narrazione in un posto e un luogo non meglio precisati, anche se sappiamo trovarci nell’Italia del ventennio fascista: Jordan, ancora bambino, accompagna suo padre in un cinema itinerante nelle piccole città del frusinate. Molti anni più tardi, ormai adulto, corona la sua passione acquistando e gestendo il cinema “Splendor”, che dopo anni di iconica carriera si ritrova abbandonato dai concittadini e in balia dei debiti, ormai sull’orlo del fallimento certo, in un periodo storico in cui la televisione impone il suo dominio sulla radio e il cinema.
Splendor esce nelle sale italiane nel marzo del 1989.

Why

Perché Splendor è una dichiarazione d’amore al cinema del passato ma anche, presi singolarmente, al cinema e al passato. E se noi da un lato amiamo l’arte cinematografica, dall’altro siamo dei tipi nostalgici e il nostro è uno sguardo “retromaniaco”, perennemente rivolto a ciò che non è più.
La NOSTALGIA è il fil rouge del primo scrapbook di CINEMAPART!

Parte 3

Sulle note e il tempo

Più spesso di quanto non voglia ammettere associo una canzone a un momento, un periodo, un evento particolare. Così capita che You're Somebody Else sia il mio amore riscoperto, Blue #1 l’indipendenza in terra straniera a diciott’anni, Wetsuit i pomeriggi assolati e le Skype call a Bristol. Ho anche perso qualche buona traccia: l’ho associata a qualcuno che poi è andato via. Ma pazienza. Diverse persone nel passato, con una posizione un po’ più privilegiata della mia, hanno cantato degli anni migliori della loro vita. O degli anni di tutti. Hanno incorniciato un momento preciso del tempo in qualcosa che il tempo lo scandisce: la musica.

Dell’anno che è appena trascorso, pochi — o nessuno — ne hanno cantato: come cantastorie inesperti stiamo ancora cercando di capirne il senso. La nostra generazione ricorderà il 2020 per tutta la vita. La musica ha fatto anche questo, ha parlato di momenti unici dell’esistenza di chi li ha vissuti e cantati, e così, per osmosi, in chi li ha ascoltati.
Questa playlist, concepita pensando all’anno di Splendor, l’89 — la caduta del muro di Berlino, la nascita del web, la commercializzazione del Game Boy — racconta gli anni del passato, gli anni impressi nei titoli delle canzoni. In fondo, citando un poeta senza tempo, un anno è solo un numero e «l’anno che sta arrivando tra un anno passerà».

di

Gianluca Rinaldi

Parte 4

Gli anni
Tutte le immagini scompariranno

(Recensione Gli anni, Annie Ernaux, L’orma editore, Roma 2015)

Volendo riassumerlo in un centinaio di battute, diremmo che Splendor parla di una piccola sala cinematografica costretta a chiudere i battenti per mancanza di spettatori.
Se utilizzassimo una lente d’ingrandimento, potremmo dire che parla della passione — in questo caso, quella per il cinema — che diviene il fulcro dell’esistenza di tre persone che a essa dedicano emozioni, energie, aspettative disattese dall’incedere della “modernità” che tutto fagocita.
Ai raggi X scopriremmo tuttavia che il vero cuore della commedia di Ettore Scola è il tempo.
Il tempo che trasforma le speranze di un bambino nella realtà di un uomo realizzato, e ancora nell’amarezza di un vecchio disilluso.
Il tempo che a un certo punto, in un istante di perfetto equilibrio, pare quasi fermarsi. Invece non lo fa, e nemmeno rallenta. Continua a limare gli argini e a trascinare detriti, non curandosi di chiunque abbia raggiunto l’apice e sappia che ogni passo in avanti sarebbe solo l’inizio del declino.
Splendor è la storia di un sogno coltivato a lungo, vissuto appieno e poi perso, dunque metafora del ciclo della vita e invito ad accogliere con un sorriso il momento inevitabile della fine, della mancanza, della nostalgia che presto o tardi sopraggiunge per tutti. È con questa consapevolezza che il canto collettivo di Auld Lang Syne sotto una nevicata di giugno — ispirato a una scena del film La vita è meravigliosa di Frank Capra — sottolinea il momento dolceamaro dell’epilogo, insieme ricordo dei “bei vecchi tempi” e gioia di un’esperienza condivisa per l’ultima volta, forse solo immaginata, ma che sembra bloccare la deriva.

E se la riflessione sul tempo che passa potrebbe sembrare un cliché già ampiamente trattato dalla letteratura e dal cinema, da Seneca all’Attimo fuggente, essa è in realtà uno dei topoi più ricorrenti nella produzione artistica di tutti i tempi — come anche, tra gli altri, l’amore, la morte, il doppio, la lotta tra bene e male —, quelli connaturati all’essere umano, che non smetteranno mai di tormentarlo e stimolare in lui la ricerca di senso.

C’è poi chi, come Annie Ernaux, più che cercare un senso in questa eterna marcia ha provato a osservarla con un approccio fenomenologico, guardando ai fatti per quelli che sono, nominandoli in ordine di apparizione senza soffermarsi troppo su ciascuno di essi per mettere invece l’accento sull’incatenamento fra gli uni e gli altri, sul panta rei della quotidianità che corre verso la propria fine.

le immagini reali o immaginarie, quelle che persistono anche nel sonno
le immagini di un momento bagnate da una luce che è soltanto loro
Svaniranno tutte in un colpo solo come sono svanite a milioni le immagini che erano dietro la fronte dei nonni morti da mezzo secolo, dei genitori morti anch’essi. Immagini in cui comparivamo anche noi, bambine, tra altri esseri scomparsi prima ancora che nascessimo, nella stessa maniera in cui ricordiamo i nostri figli piccoli assieme ai loro nonni già morti, ai nostri compagni di scuola. E così un giorno saremo nei ricordi dei figli in mezzo a nipoti e a persone che non sono ancora nate. Come il desiderio sessuale, la memoria non si ferma mai. Appaia i morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginari, il sogno alla storia.
[…]
Tutto si cancellerà in un secondo. Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo. Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole. Nelle conversazioni attorno a una tavolata in festa saremo soltanto un nome, sempre più senza volto, finché scompariremo nella massa anonima di una generazione lontana.

Nessuno come la scrittrice francese ha saputo parlare di tutto e niente, infinitamente grande e infinitamente piccolo. Della vita che, in maniera impercettibile e incessante, acquisisce nuove crepe nelle quali penetrano azioni, parole, contesti sempre diversi che la rendono continuamente qualcosa di inedito, fino all’ineluttabile silenzio. Eppure, pagina dopo pagina, il lettore degli Anni si accorge che il nodo centrale del romanzo non sono tali elementi affastellati come vecchie fotografie in una scatola ma, appunto, il tempo stesso che ne ha ingiallito i bordi e accentuato l’odore.

Come accade che il tempo che abbiamo vissuto diviene la nostra vita?

Sono davvero le abitudini giornaliere e le guerre in corso, i negozi in cui facciamo la spesa e il presidente in carica a tessere in ugual modo quella che un giorno, all’improvviso, riconosciamo come la nostra esistenza? Ernaux se lo chiede mentre giustappone senza soluzione di continuità eventi trascurabili ma prossimi ed eventi epocali ma distanti, canzoni ascoltate e amori vissuti, vestiti indossati e mentalità dominante, personaggi televisivi e atteggiamento nei confronti del progresso, scandendo il tutto con la descrizione di ritratti che in una sorta di sineddoche diventano ognuno la versione palpabile di un’era al contempo privata e collettiva, trama e ordito della sua biografia e di un pezzo di storia culturale, politica, economica e sociale francese.

Facevano a gara di citazioni, fomentandosi in quella rievocazione di oggetti di un passato comune, una memoria inesauribile e futile che li faceva sembrare dei ragazzini. […] E osservando, ascoltando quei bambini diventati adulti, ci domandavamo cosa fosse a legarci, non il sangue né i geni, solo un presente fatto di migliaia di giorni insieme, di parole e di gesti, di pasti, di tragitti in auto, di esperienze condivise che avevano lasciato dentro di noi una traccia senza che nemmeno ce ne rendessimo conto.

Certo per un anziano cittadino francese nato in piena Seconda guerra mondiale l’immedesimazione sarà al massimo grado, e non esiste millennial in grado di rimanere indifferente alle reminiscenze degli anni Novanta — l’eclissi solare del ’99, il computer, l’attesa del 2000 e del Millennium Bug, il consumismo progressivamente normalizzato, il cellulare; e poi l’11 settembre, l’euro, gli ipermercati, Internet, la destra e la sinistra e poi la destra, i populismi, il senso del futuro nella liquidità del postmoderno.
Cionondimeno, grazie al tipo di sguardo che l’autrice proietta su se stessa e sul mondo, persino il racconto di vicende remote come l’invasione della Francia o il Dopoguerra suscita empatia in chi non le ha vissute.
Forse è questo, il motivo per cui Gli anni colpisce a un livello così profondo: come annali del XX e XXI secolo, dagli anni Quaranta a oggi, queste pagine ci mostrano che in fondo, malgrado la superficie differente e la lontananza che spesso ci autoimponiamo, noi occidentali di diverse latitudini abbiamo vissuto la stessa storia, siamo molto più simili di quanto crediamo. E siamo allo stesso modo ossessionati dal passato, dalla memoria, dallo scorrere del tempo, da ciò che è stato e non sarà più ma da cui non riusciamo a staccarci, perché è parte di noi. Come una vecchia sala cinematografica che nessuno frequenta più.

[…] si chiede «vorrei essere ancora là?». Le piacerebbe rispondere di no, ma sa che la domanda non ha senso, che nessuna domanda ha un senso applicabile alle cose del passato.

di

Arianna Caprioli

Scritto sulla sabbia
Herman Hesse

Che il bello e l’incantevole
Siano solo un soffio e un brivido,
che il magnifico entusiasmante
amabile non duri:
nube, fiore, bolla di sapone,
fuoco d’artificio e riso di bambino,
sguardo di donna nel vetro di uno specchio,
e tante altre fantastiche cose,
che esse appena scoperte svaniscano,
solo il tempo di un momento
solo un aroma, un respiro di vento,
ahimè lo sappiamo con tristezza.
E ciò che dura e resta fisso
non ci è così intimamente caro:
pietra preziosa con gelido fuoco,
barra d’oro di pesante splendore;
le stelle stesse, innumerabili,
se ne stanno lontane e straniere, non somigliano a noi
– effimeri-, non raggiungono il fondo dell’anima.
No, il bello più profondo e degno dell’amore
pare incline a corrompersi,
è sempre vicino a morire,
e la cosa più bella, le note musicali,
che nel nascere già fuggono e trascorrono,
sono solo soffi, correnti, fughe
circondate d’aliti sommessi di tristezza
perché nemmeno quanto dura un battito del cuore
si lasciano costringere, tenere;
nota dopo nota, appena battuta
già svanisce e se ne va.

Così il nostro cuore è consacrato
con fraterna fedeltà
a tutto ciò che fugge
e scorre,
alla vita,
non a ciò che è saldo e capace di durare.
Presto ci stanca ciò che permane,
rocce di un mondo di stelle e gioielli,
noi anime-bolle-di-vento-e-sapone
sospinte in eterno mutare.
Spose di un tempo, senza durata,
per cui la rugiada su un petalo di rosa,
per cui un battito d’ali d’uccello
il morire di un gioco di nuvole,
scintillio di neve, arcobaleno,
farfalla, già volati via,
per cui lo squillare di una risata,
che nel passare ci sfiora appena,
può voler dire festa o portare dolore.
Amiamo ciò che ci somiglia,
e comprendiamo
ciò che il vento ha scritto
sulla sabbia.

Parte 5

I poster perduti

Amici cinefili! Vandali nostalgici! Profanatori di bacheche!
C'è un progetto di cui saprete molto presto. Indovinate? Sì, sul cinema, ma non solo. Portate pazienza! Però stavolta non ci sono soltanto io.
C'è una cosa che parla di voi, che avete i poster dei film del cuore appesi alle pareti. Ci serve il vostro aiuto! Avete una locandina strappata dalle bacheche dei vostri cinema di città? Avete la foto scarsa di un poster in una teca male illuminata?
Ci piacerebbe che ci mandaste le vostre foto. Vorremmo creare un piccolo corpus da pubblicare nella prima uscita del nostro progetto. Ho già detto troppo.

(Open call pubblicata sui nostri profili personali)

Locandina del film Freak

"Freaks"

Locandina del film The Walking Dead

"The Walking Dead"

Locandina del film The Black Lagoon

"Creature from the black lagoon"

Locandina del film Leon

"Leon"

Locandina del film Il Corvo

"Il Corvo"

Locandina del film Arancia Meccanica

"Arancia Meccanica"

Locandina del film Scacciata

"Scacciata"

Swipe left / right

Parte 6

Un disperato grido d'aiuto
Benvenuti nel cinema di Eva Hide

C'è qualcosa che attira l’attenzione, fuori, sulla bacheca del Cinema Opera di Barletta. E no, non è la locandina di un film. È un poster con due persone in abiti estivi leggeri, di quelli che portano le signore in casa, ché si sta comodi. La cosa strana non è che indossino maschere integrali da maiale e clown. No, la cosa strana è che dietro di loro, attorno a loro, ci siano oggetti comuni come secchielli, ciambelle gonfiabili, palette per la sabbia. Oggetti del quotidiano. La cosa strana è la relazione tra questi due poli apparentemente opposti, l’inganno è proprio qui.

Eva Hide, Kammerspiel ADA, Rome 2020-2021

Le opere di Eva Hide sono maioliche esasperate dagli scenari sin troppo noti a chi osserva.

Le opere di Eva Hide — entità composta da Leonardo Moscogiuri e Mario Suglia — sono maioliche esasperate dagli scenari sin troppo noti a chi osserva, sono universi mostruosi, sarcastici e parossistici composti dai frame corrotti della nostra esistenza. Piccole e curatissime scene grottesche riprodotte con sapiente precisione, ninnoli marci che mischiano animali, spazi domestici, giocattoli persino, a una moltiplicazione disturbante di corpi mutilati con genitali esposti. Una favola oscura che lascia emergere il legame indissolubile tra la nostra natura perversa e la realtà perbenista delle nostre esistenze. Una narrazione che mette a nudo quel desiderio sottaciuto dalla morale che nasconde, ma non annulla. In queste suppellettili dell’orrore ritroviamo riflessi i modi e gli istinti che almeno una volta, ma spesso più di una, ci troviamo ad assumere: l’unica alternativa — perlomeno quella suggerita da Eva Hide — è l’ironia.

La grafica introduttiva alla mostra ospitata negli spazi dell’ADA a Roma reca la scritta Kammerspiel: è un rimando all’omonima corrente artistica tedesca nata nei teatri negli anni Venti, la quale ricercava un’intima connessione con lo spettatore creando con lui un “legame” che lo rendesse quasi protagonista della pièce stessa.
L’attrazione inconscia verso le opere di Eva Hide è presto spiegata: non siamo solo spettatori, ma anche (e soprattutto) attori di una recita quotidiana persistente che mette in mostra i nostri fantasmi mostruosi.

Eva Hide, Kammerspiel ADA, Rome 2020-2021

Il poster Kammerspiel affisso sulla bacheca del Cinema Opera è parte del progetto “Prossimamente”, nato con l’intento di rilanciare e sostenere le sale cinematografiche pugliesi duramente colpite dai provvedimenti anti-Covid. Le bacheche, tristemente spoglie da oltre un anno, si riempiono delle opere di ventisei artisti contemporanei, che è possibile acquistare al prezzo di 50€ per sostenere l’iniziativa.

di

Gianluca Rinaldi

Parte 7

Uncle Josh at the Moving Picture Show

La storiografia cinematografica ufficiale presume che l’affermazione definitiva delle sale cinematografiche, o comunque di luoghi stabili adibiti a tale scopo, si attesti intorno agli anni Dieci del XX secolo.

Prima di tale data, la proiezione cinematografica non aveva una propria egemonia. Non era presa sul serio, non le si attribuiva neanche un effettivo valore culturale: risultava semplicemente uno dei tanti spettacoli che durante un cabaret adornavano e riempivano la serata.
In un’atmosfera di questo tipo anche il pubblico risultava “primitivo”, più grezzo. Non era insolito, per esempio, che per tutta la durata delle proiezioni gli spettatori lanciassero commenti di gradimento e non, fischi e qualsivoglia rumore.

All’emanciparsi della cultura cinematografica furono eretti o allestiti luoghi specifici per quell’unico scopo e specularmente anche il pubblico subì una mutazione, “venne educato” ad assumere un comportamento consono al luogo in cui si trovava.
Questo importante cambiamento si può riscontrare in una produzione dell’epoca, il cortometraggio muto Uncle Josh at the Moving Picture Show (Lo zio Josh va al cinema) diretto da Edwin S. Porter e datato 1902, in cui viene rappresentata e in qualche modo criticata la figura di “Uncle Josh”: un personaggio che, enormemente attratto dalla novità del cinema, si lascia andare a un comportamento non proprio conforme.

A questo punto non è troppo difficile notare come nel film di Ettore Scola entrambi gli elementi vengono riproposti in modo quasi anacronistico.
Nei primi minuti di Splendor è infatti raccontata la vicenda del passato di Jordan, in cui sia il pubblico sia il luogo non obbediscono perfettamente al periodo imposto. La proiezione è allestita in una piazza con un “cinematografo viaggiante” e il pubblico, che percepisce l’insolito evento come un’attrazione fuori dal quotidiano, non sembra essere del tutto educato.

Pensateci bene: sebbene sia una vicenda passata, è anche vero che il periodo è quello del regime fascista – come si nota dalla scritta «È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende. Mussolini» –, dunque ben oltre gli anni dell’istituzionalizzazione del cinema.
Più che un reale anacronismo o errore cronologico, dunque, possiamo ravvisare in queste immagini una sorta di bolla fuori dal tempo, in cui tutto si muove quasi controcorrente al procedere dei fatti.
Non è comunque strano pensare che si tratti di un’eccezione, o di una tradizione inedita della città. In fondo anche in piazza Maggiore a Bologna si organizzava – e speriamo si ricominci al più presto – un cinema all’aperto in cui, più che il film, il vero protagonista era l’evento stesso.

di

Dario Delvecchio

Staff #1

"Splendor"

CINEMAPART

Art direction & coding

Gianluca Rinaldi

Direzione editoriale

Arianna Caprioli

Redazione

Arianna Caprioli

Gianluca Rinaldi

Dario Delvecchio

Giada Marciano

Contributi

Dario Delvecchio

Michela Ventura

Antonio Scamarcio

Aurora Ventura

Special thanks

Andrea Venditti

Marco Delvecchio

Ilario dell'Orco

Desclaimer

Le opere citate in questa pagina e i relativi diritti sono di proprietà dei rispettivi autori.

© CINEMAPART 2022 — Tutti i diritti riservati / About / Info