
Parte 1
Elio, Elio, Elio...
Who
Regia: Luca Guadagnino
Sceneggiatura: James Ivory
Soggetto: André Aciman
Ruoli principali
— Timothée Chalamet in Elio, introverso diciassettenne in vacanza nella villa di famiglia nel nord Italia;
— Armie Hammer in Oliver, brillante studente ospite del padre di Elio.
Colonna sonora: Sufjan Stevens
What
Chiamami col tuo nome è un sogno dalla bellezza effimera, lo specchio di una vita parallela che ha mostrato un amore impossibile, e per questo crudele. In un tempo del mondo in cui l’omosessualità era ancora un reato laico, due ragazzi legano le loro vite al tempo di un’estate. «Ma vent’anni sono ieri, e ieri è stamattina presto, e quando non avrai più nulla da dirmi in questa vita, tu, se vuoi, chiamami col tuo nome».
Where
Ci troviamo nelle campagne di Crema, in Lombardia, dove le gialle distese collinari rievocano i paesaggi dipinti da Monet, un locus impresso nel cuore di Elio e in un piccolo quadro che accompagnerà la storia d'amore con Oliver per 20 lunghi anni.
When
È il 1983: il susseguirsi dei giorni pigri nell’estate calda è scandito dalle attività nella casa. Il provincialismo della piccola città lombarda alimenta un cercarsi vicendevole tra le pagine dei libri, le fatiche della tavola e le lunghe passeggiate in bicicletta.
Why
Chiamami col tuo nome è un quadro impressionista, un insieme di pennellate che dalla giusta distanza raccontano, metaforicamente e non, L'ESTATE E IL SUO ESAURIRSI. È questo il fil rouge dello scrapbook #2 di CINEMAPART.
Parte 2
Tra sempre e mai. Sempre e mai
Zwischen Immer und Nie
Tra sempre e mai
(Recensione Chiamami col tuo nome, André Aciman, Guanda 2018)
Per un giovane, la stagione estiva è una parentesi sospesa, idealmente incastonata tra la vita vera e il sogno, destinata a concludersi non appena ci si fa l’abitudine: una brezza più fresca e l’acquisto di nuovi libri e quaderni riportano sempre troppo presto al quotidiano. Comincia a cambiare volto nel momento in cui la scuola finisce e l’università o il lavoro reclamano più attenzione del previsto, togliendole la capacità di far perdere la cognizione del tempo. Pian piano acquisisce così un nuovo significato e diviene parte di un binomio quasi automatico: estate/giovinezza. La giovinezza del resto è l’estate della vita (cliché alert!), il momento in cui i boccioli e le tinte tenui esplodono in un’abbondanza di frutti e colori dirompenti, e tutto è potenzialità e turgore. Non è difficile che un tale idillio assuma i connotati del paradiso perduto, del ricordo dai tratti sfocati: estate e giovinezza camminano fianco a fianco con la nostalgia; la fine dell’estate è in qualche modo la memoria di un’era irreale.
Un autore che è riuscito a rendere il binomio estate/giovinezza in maniera commovente quanto devastante è André Aciman. Commovente perché il suo modo di comporre le frasi, indagando ogni minima variazione dell’animo, è un levigare il marmo con la finezza di uno scultore classico. Devastante per la sua capacità di toccare i nervi scoperti di molti (la perfezione acerba e inconsapevole di un incontro, le scelte da cui non si torna indietro, il rimpianto più grande…).
Commovente perché il suo modo di comporre le frasi, indagando ogni minima variazione dell’animo, è un levigare il marmo con la finezza di uno scultore classico.
In Call Me by Your Name lo spazio concesso alla “storia d’amore” è, paradossalmente, esiguo: tutto il resto è attesa, desiderio, terrore, speranza, fremito, ossessivo interrogarsi. Dopo, è saudade. Un senso di malinconica nostalgia e rimpianto per qualcosa che è durato il tempo di una fioritura e che tuttavia proietterà la propria luce sull’intera esistenza di chi l’ha sperimentato. Tutt’intorno, un senso di bellezza così vivido da sembrare artefatto e che invece, per molti di noi «da qualche parte in Italia», è la poesia della normalità. Strade assolate. Corse in bicicletta. Pomeriggi letargici in giardino, fra un bagno e i versi di Celan, le note di un pianoforte o una chitarra e il frinire delle cicale. Odori, suoni, colori, sensazioni tattili di un qui e ora dalla bellezza feroce. And words are futile devices, canta Sufjan Stevens, le parole sono dispositivi futili, vani strumenti incapaci di aggiungere alcunché a un determinato momento, perché tutto è senso e la ragione non conta più.
Oggi, il dolore, la curiosità, l’eccitazione per una persona nuova, la promessa di una gioia immensa a portata di mano, il goffo tentativo di sondare chi potrei fraintendere ma che non voglio perdere e di cui ogni volta devo prevedere le mosse, l’astuzia disperata che uso con chiunque desidero e voglio mi desideri, le barriere che innalzo come se tra me e il mondo ci fossero non uno, ma molti strati di porte scorrevoli in carta di riso, l’urgenza di criptare e decriptare ciò che, in realtà, non è mai stato codificato… tutto questo iniziò l’estate in cui Oliver venne a casa nostra. È inciso in ogni canzone che spopolava allora, in ogni romanzo che ho letto durante e dopo il suo soggiorno, in ogni cosa, dal profumo del rosmarino nelle giornate calde al frinire concitato delle cicale di pomeriggio: odori e suoni, in mezzo ai quali ero cresciuto e con cui fino ad allora avevo convissuto ogni anno della mia vita ma che poi d’un tratto riscoprivo eccitanti, arricchiti di una sfumatura particolare, per sempre colorata da ciò che accadde quell’estate.
Il brillante ricercatore americano e il figlio diciassettenne del suo professore di archeologia continueranno ognuno il proprio percorso, ma non basteranno la lontananza e il proseguire delle rispettive vite a porre fine al loro amore. Elio e Oliver resteranno Elio e Oliver, a B., a chiamarsi ognuno con il nome dell’altro, a parlare di arte e letteratura, a pedalare, nuotare, vivere e amare così intensamente da far sì che il loro rapporto diventi pietra miliare per ogni rapporto futuro, restando immutato come una statua riemersa dalle profondità delle acque del tempo. E noi scopriamo che il tempo è nulla: i protagonisti ne sprecano tanto, nel corso dell’estate a loro concessa, ma la breve durata di questo concretizzarsi li marchia a fuoco malgrado l’autunno arrivi troppo presto a strapparli a quel minuto di grazia. Non resterà loro che l’impressione cristallizzata di ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato, per scelta o per bizzarria del destino: un attimo che irradia decadi.
Non resterà loro che l’impressione cristallizzata di ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato, per scelta o per bizzarria del destino: un attimo che irradia decadi.
Ma questa cosa che quasi non fu mai ancora ci tenta, avrei voluto dirgli. Quei due non possono disfarla, né riscriverla, né far finta di non averla vissuta, nemmeno riviverla; è lì, bloccata, come un’apparizione di lucciole in un campo d’estate verso sera, e continua a ripetere a ognuno di loro: Avresti potuto avere questo, invece. Ma tornare indietro è falso. Andare avanti è falso. Far finta di niente è falso. Cercare di rimediare a tutte queste falsità è a sua volta falso. La loro vita è come un’eco distorta sepolta per sempre in un santuario di Mitra.
Tratto da Burnt Norton – Four Quartets
Time present and time past
Are both perhaps present in time future,
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable.
What might have been is an abstraction
Remaining a perpetual possibility
Only in a world of speculation.
What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.
Footfalls echo in the memory
Down the passage which we did not take
Towards the door we never opened
Into the rose-garden. My words echo
Thus, in your mind.
But to what purpose
Disturbing the dust on a bowl of rose-leaves
I do not know.
Other echoes
Inhabit the garden. Shall we follow?
Quick, said the bird, find them, find them,
Round the corner. Through the first gate,
Into our first world, shall we follow
The deception of the thrush? Into our first world.
There they were, dignified, invisible,
Moving without pressure, over the dead leaves,
In the autumn heat, through the vibrant air,
And the bird called, in response to
The unheard music hidden in the shrubbery,
And the unseen eyebeam crossed, for the roses
Had the look of flowers that are looked at.
There they were as our guests, accepted and accepting.
So we moved, and they, in a formal pattern,
Along the empty alley, into the box circle,
To look down into the drained pool.
Dry the pool, dry concrete, brown edged,
And the pool was filled with water out of sunlight,
And the lotos rose, quietly, quietly,
The surface glittered out of heart of light,
And they were behind us, reflected in the pool.
Then a cloud passed, and the pool was empty.
Go, said the bird, for the leaves were full of children,
Hidden excitedly, containing laughter.
Go, go, go, said the bird: human kind
Cannot bear very much reality.
Time past and time future
What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.

Arianna Caprioli
Parte 3
C'è della poesia












Giuliana Massaro
Parte 5
Una lunga notte
La favola del mostro e della dea
C’erano una volta un basso a due corde, una batteria e un sassofono contralto.
No.
Un basso a due corde, un sassofono contralto e una batteria entrano in un bar e formano una band.
A questo punto avrete aggrottato la fronte e vi starete chiedendo dove andrò a parare. Non lo so nemmeno io. Cercavo di introdurre una band la cui storia sarebbe da palinsesto di Real Time la domenica sera.
Tra gli anni Ottanta e Novanta non c’era nulla che assomigliasse ai Morphine. Non c’è tuttora.
È una favola strana: ci sono personaggi misteriosi, una principessa e una vetta innevata. Ma non ha un lieto fine.
Di Mark Sandman non sappiamo quasi nulla. Ha un nome da fumetto e tutte le connotazioni di un villain: non sappiamo come abbia vissuto la sua vita, forse nemmeno da dove venga né quanti anni abbia. Sappiamo che ha una cicatrice sul petto e dei profondi occhi azzurri; che ha fatto svariati lavori, uno come tassista, ed è proprio con questo che si è procurato la cicatrice: è stato accoltellato vicino al cuore dopo una rapina finita male – quali che siano le conseguenze, le scopriremo più tardi. Sappiamo infine che ha suonato in diverse band, tra cui Candy Bar, Pale Brothers, ma soprattutto Treat Her Right.
La Boston degli '80 era un posto folle
Boston negli anni Ottanta è un posto folle. La scena musicale brulica delle decine di band che si formano e si sfaldano sotto il peso di personalità ingombranti.
Avete presente? “Nel mondo ogni dieci minuti…” succede qualcosa.
Ecco, potremmo dire: “A Boston ogni sera nasceva una nuova band”. Pressappoco. Ma è vero che ogni sera c’era un concerto: spesso lo stesso chitarrista lo vedevi suonare in quattro band diverse nella stessa settimana.
Uno dei modi di sfondare in questo periodo era che la tua musica venisse passata per la radio dei college. Anche oggi, a distanza di trenta o quarant’anni, le radio dei college di Boston restano una sorta di tradizione, un modo di diffondere attraverso le onde FM le demo delle band da garage che non potrebbero emergere da sole. I Treat Her Right non avevano uno straccio di contratto discografico, ma la loro musica riempiva i dormitori dei college di Boston ogni sera. Un’armonia blues che ululava sotto la “low guitar” di Sandman, una creatura un po’ tetra prodotto di una trasformazione oculata (una o due ottave più giù di un’accordatura tradizionale). Era un sound che colpiva la pancia. Se avete l’impressione che Sandman fosse un personaggio shelleyano, sì, la penso come voi.
Sandman era un personaggio shelleyano
I Treat Her Right si sfaldano all’alba degli anni Novanta, quando Sandman ha già diversi side project. Uno di questi, i Morphine.
Fun fact: uno dei tre membri suona benissimo il sassofono. Ma in realtà è il tecnico delle chitarre dei Treat Her Right.
La prima esibizione pubblica è al Middle East. Credo sia come il Preservation Hall di New Orleans: tutti passano dal Middle East. Ed è solo una coincidenza che sia a due minuti di cammino da casa di Sandman. Queste pareti assistono a un trio dalle frequenze volutamente basse, ed è chiaro sin da subito che questa band ha qualcosa di diverso.
Lasciate che vi parli un attimo del sound di Mark Sandman. O meglio, della sua “S” stampata sul petto. In un’intervista nel suo studio di registrazione privato, lo Hi-n-Dry, Sandman parla di una canzone: The Cherokee Dance di Bob Landers. La chitarra di Bob Landers monta una singola corda di basso. È qui che tutto ha inizio.
Torniamo ai Morphine. I loro concerti sono sold out ancora prima che la band arrivi sul posto.
C’è questo episodio che credo sia degno di nota: una volta suonarono in Europa, agli esordi. Avrebbero attaccato alle tre del mattino. Dopo il set di novanta minuti la folla era calda più che mai, incurante del sonno. Il direttore del festival disse loro: «Il palco è vostro, suonate finché volete».
Suonarono fino all’alba e quel concerto rimase l’epifania di molti.
I Morphine producono un album d’esordio che li consacra tra i migliori indie di sempre: Good. Firmano un contratto discografico che li porta a produrre altri due album di successo, Cure for the Pain e Yes. Sono una band sicuramente da club, dove il suono sommesso del basso rimbalza sulle pareti e ti investe con forza estatica, facendoti muovere braccia e gambe in modo quasi automatico. Ma riescono a difendersi altrettanto bene in festival e concerti outdoor, con tour anche mondiali che li tengono lontani dagli affetti per tanto, tanto tempo. Il cuore, Sandman, lo aveva lasciato a casa di Sabine, la sua fidanzata.
2 luglio 1999, 16:05
Volo da Lisbona a Roma
I Morphine sono reduci da un concerto faticoso. Sotto la calura infernale del mezzogiorno il soundcheck risente del sudore sui tasti e sulle corde. Mark, rosso in volto e con lo sguardo vitreo, cerca di non svenire. Il concerto però va bene e la band è pronta alla prossima tappa, Palestrina, al festival Nel nome del rock. Palestrina è un piccolo comune a quaranta chilometri da Roma. È un borgo medievale evocativo dalla profonda bellezza. In collina sorge il santuario della Fortuna Primigenia, un complesso sacro dedicato alla dea Fortuna, la dea romana della sorte.
Anche quel giorno la calura è insopportabile. A fine soundcheck la band decide di percorrere la lunga scalinata che conduce al santuario. Mark è riluttante. Avverte una grande spossatezza, ma non ci bada; in fin dei conti il caldo è atroce. La vista da lassù però è stupenda.
Alle sette rientrano in hotel, sono pronti per il concerto.
Sono contenti, il palco è bellissimo, la gente è gentile e pronta a godersi la loro musica.
Il concerto procede bene.
Verso la metà, durante Sharks Patrol These Waters, Mark suona la canzone diversamente.
Sono alla settima canzone, Supersex. Mark accenna una nota, ma gli cedono le ginocchia, dal basso esce un’unica corda a vuoto. Dana Colley, il sassofonista, si gira e d’improvviso lo vede cadere all’indietro sul suo amplificatore.
Quattordici anni dopo gli organizzatori del festival descrivono il silenzio di quel momento.
Dal parcheggio dell’ospedale i Morphine possono vedere nella stanza in cui è ricoverato Mark.
I Morphine vedono il lenzuolo bianco tirato sulla testa di Mark. Il medico chiude le tende della finestra.
Un infarto fulminante lo porta via a quarantasei anni, il 3 luglio 1999.
Sul tetto del mondo
Sul tetto dell’Africa, il Kilimangiaro, Sabine deposita una pietra della tomba di Mark.
Avrebbero dovuto fare questo viaggio in moto insieme, l’ultimo giorno dell’anno 1999.
Mentre il sole sorge sul nuovo millennio, Sabine chiude gli occhi e pensa a lui.

Gianluca Rinaldi
Parte 4
Can I troll round your rally?
Il Polari, la lingua segreta della comunità gay
Il Polari è una lingua perduta usata dalla comunità gay nell’Inghilterra del primo Novecento, ma in uso già da un paio di secoli. Prima del 1967, l’omosessualità era criminalizzata e dunque illegale in Gran Bretagna e Irlanda. Per evitare la prigionia e riconoscersi, gli omosessuali presero a utilizzare un liguaggio singolare, composto da frasi e slang appartenenti alla lingua italiana, romena e per lo più inglese. Il risultato è qualcosa di sorprendentemente no sense.
Anche se usato principalmente dai gay, era conosciuto anche dalle lesbiche e da uomini che impersonavano le donne in spettacoli teatrali nelle cosidette molly houses, cioè le taverne e i locali segreti in cui si incontravano e frequentavano le persone queer a Londra.
A causa della sua natura “ghettizzante”, ma soprattutto grazie ai recenti movimenti di rivendicazione dei diritti della comunità LGBTQIA+, questo linguaggio cominciò a servire sempre meno, fino a scomparire del tutto.
Ma se anche voi, cultori linguisti e appassionati della domenica, voleste cimentarvi nel suo apprendimento, sappiate che il Polari non si trova su Duolingo. Ecco quindi una lista breve per cominciare.
Omi = uomo
Palone = donna
Omi-palone = uomo gay
Dish = uomo attraente
Bona = bell*
Naff = non disponibile per sesso
Slap = trucchi
Nah da to varda in the larder = un piccolo pene
Cotagge = bagno usato per il sesso
Ogle = guardare con desiderio
Trade = partner con cui fare sesso
Pumping Irenie = corpo in forma
Can I troll round your rally? = posso girare per casa tua?
Minge = vulva
Schcvartze = uomo nero
Meat and two veg = pene e testicoli
Femme = femmineo

Gianluca Rinaldi
Staff #2
"Chiamami col tuo nome"
CINEMAPART
Gianluca Rinaldi
Arianna Caprioli
Arianna Caprioli
Gianluca Rinaldi
Giuliana Massaro
Anna Lisa Valente
Ivana Aurora
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